Nel cuore di una notte d’inverno, la Corea del Sud ha rischiato di vedere svanire decenni di progresso democratico. Il presidente Yoon Suk-yeol, eletto nel 2022 con un margine risicatissimo, ha tentato di imporre la legge marziale per fermare ogni attività politica e prendere il controllo dei media. Ma il suo piano, condotto con il sostegno di settori militari preparati e ben organizzati, è fallito in modo spettacolare. Nonostante l’inefficacia dell’operazione, l’episodio ha evidenziato con forza le fragilità strutturali della democrazia sudcoreana e il peso ancora ingombrante del potere esecutivo.
In Corea del Sud, il presidente detiene tradizionalmente poteri immensi. Sebbene l’Assemblea Nazionale abbia visto crescere il proprio ruolo, il processo di democratizzazione è stato avviato e modellato in gran parte dall’alto, mantenendo in vita un’architettura istituzionale che concentra il potere decisionale nelle mani del capo dello Stato. Le prerogative presidenziali spaziano dalla nomina delle cariche chiave fino al controllo di agenzie strategiche come l’intelligence e la procura pubblica. Anche la revoca della legge marziale, votata all’unanimità dal parlamento, è dipesa dal rispetto formale del presidente nei confronti del voto.
Il tentativo di Yoon di aggirare il parlamento dopo aver perso la maggioranza riflette una dinamica ricorrente nella politica sudcoreana, dove l’erosione del consenso spinge i leader a esercitare un uso spropositato dei poteri esecutivi. La debolezza delle istituzioni parlamentari ha spesso favorito abusi e compromessi con i grandi conglomerati economici – i famigerati Chaebol – che hanno ottenuto accesso alle decisioni politiche in cambio di favori e sostegno.
Yoon, circondato da figure ultra-conservatrici legate a una visione ideologica da guerra fredda, ha progressivamente perso credibilità. Gli scandali di corruzione che coinvolgono lui e la moglie, le difficoltà economiche e le sue frequenti gaffe pubbliche hanno accelerato il declino della sua popolarità. Di fronte alla paralisi legislativa, ha scelto di forzare la mano ricorrendo alla legge marziale, una mossa che ha evocato fantasmi del passato.
Infatti, la militarizzazione della politica in Corea del Sud non è un ricordo remoto. Dal 1961 al 1993 il Paese è stato governato da presidenti provenienti dalle fila dell’esercito. Anche dopo le riforme degli anni Novanta, il permanere dello stato di guerra con la Corea del Nord ha permesso ai militari di conservare un ruolo latente nella vita politica. La coscrizione obbligatoria e la vicinanza tra esercito ed élite conservatrici continuano a rafforzarne l’influenza. Durante la cosiddetta “Rivolta delle Candele” del 2016–17, che portò alla destituzione della presidente Park Geun-hye, emerse il rischio concreto di una repressione armata delle proteste democratiche da parte dell’esercito, episodio che spinse a un’inchiesta nazionale.
Il tentativo di colpo di mano orchestrato da Yoon – secondo alcune fonti persino all’insaputa dei suoi stessi alleati politici – ha riportato alla luce il ruolo ambiguo e pericoloso dell’apparato della sicurezza nazionale. La Corea del Sud ha evitato per poco una deriva autoritaria e il caso rappresenta un campanello d’allarme per tutte le democrazie. Il tentativo di Yoon riflette un trend globale in cui i leader di estrema destra considerano le istituzioni democratiche come ostacoli ideologici da rimuovere. Basti pensare alle parole di Donald Trump, che ha più volte evocato l’uso dell’esercito e della forza per imporre la sua agenda.
In definitiva, l’azzardo di Yoon si è rivelato un errore clamoroso, il gesto disperato di un presidente in declino che ha cercato di salvare la propria posizione politica minando la democrazia del suo Paese. Ma la reazione del parlamento e della società civile coreana dimostra che la vigilanza democratica è viva e può ancora prevalere. Ora spetta ai cittadini e ai rappresentanti eletti impedire che simili minacce si ripetano.