Roma, lunedì 28 ottobre 2013 – Sui nove appuntamenti dedicati alla nuova danza contemporanea, programmati nella sezione DNA del Romaeuropa Festival dal 23 al 27 ottobre, e curati da Anna Lea Antolini, in almeno tre di questi emerge un dato di fondo. I nuovi coreografi intendono la danza come libertà espressiva assoluta e la loro accanita ricerca in più di un caso giunge fino a mettere in discussione i fondamenti dell’arte coreografica. Alessandro Sciarroni, Giorgia Nardin, Chiara Frigo, ciascuno a suo modo, mettono in scena spettacoli o performance che sono ai confini della danza, intesa come interpretazione e racconto attraverso il movimento del corpo. Ne scandagliano i limiti estremi, la piegano a gesto privo di senso, alle volte a gesto quasi privo di movimento significante, quando non la pensano come elemento  “inutile” a fornire da solo un soprasenso. Così lo spazio scenico diviene laboratorio dove testare i limiti della danza. Ma del resto a questo serve una sezione come DNA. Mettere a disposizione dei giovani coreografi e performer un luogo dove presentare le pulsioni e le tensioni sperimentali più avanzate, anche quelle che forse saranno prive di sbocchi futuri.

Alessandro Sciarroni, salutato come uno dei migliori coreografi emergenti del panorama nazionale, nel suo Untitled. I will be there when you die, presentato mercoledì 23 al Palladium, mette in scena quattro giocolieri che lanciano in aria le classiche clave. Lo spettacolo inizia con estrema lentezza per acquistare poi maggiore movimento. Ma il lato di fondo che emerge è la soppressione della meraviglia di uno spettacolo di giocolieri. Quello che stupisce sempre in questo genere di performance è la capacità di spingere il gesto circense oltre ogni limite, e allo stesso tempo la totale, affidabile sicurezza nel fatto che gli esecutori non lasceranno mai cadere clave o piatto che sia. Nello spettacolo pensato da Sciarrelli la coazione a ripetersi dei quattro esecutori, con gesti sempre uguali a se stessi, non è esente da errori, anzi l’errore è parte costituzionale del testo scenico. La caduta dell’oggetto non è fallimento, ma elemento della performance. Viene dunque meno il sorprendente. E viene poi meno anche l’elemento coreografico per eccellenza. Il movimento fisico è sempre subordinato all’azione di giocoleria. A danzare ripetutamente, in una sbalorditiva assenza di gravità, che però con il tempo diviene solo ipnotica circolarità, sono gli oggetti. La danza è ristretta e confinata nei pochi passi che i giocolieri possono fare clave alla mano. Una costrizione che annulla le libertà espressive del corpo umano. Scavo verso i limiti estremi del fare danza? Può essere. Ma il dato di fondo che emerge dal testo scenico, così come è stato pensato e costruito, è un’ossessione che alla fine porta allo straniamento dello spettatore (come accadeva in Folk-s), per far passare nella disattenzione l’annullamento del danzatore. Chi si accorgerà che la danza è quasi sparita se lo spettatore è spinto lontano?

Anche Giorgia Nardin nella performance di sabato 26 all’Opifico Telecom, All dressed up with nowhere to go, ha confinato o ristretto la danza in pochi movimenti, viziati o resi tronchi da una scelta radicale iniziale. Stare sempre e soltanto su un piede. I due interpreti Amy Bell e Marco D’Agostin danzano o meglio si muovono sul precario equilibrio che consente l’uso di un solo piede. Nell’immobilità iniziale l’unico movimento che si ravvisa è il tremolio non voluto dei muscoli nello sforzo del sostegno fisico. E in seguito l’impossibilità della camminata consegna al pubblico strani movimenti corporali che sono al limite della danza, movimenti privi di estetica, che non cercano accordi ritmici con la musica immaginata o ascoltata. E non è un caso che in questo spettacolo (ma lo era anche nel precedente di Sciarrelli) il tappeto musicale, campionato, sia un ritmo continuo, privo del tipico movimento armonico. Nella seconda parte la Nardini rinuncia alla regola di fondo con cui ha aperto e impostato la performance, quella di stare sempre su di un piede, costruendo con i corpi nudi dei due ballerini raffinati quadri plastici, dove il partner maschile aggrappandosi e salendo sul corpo dell’altra, rimanda a visioni di maternità e di più classiche pietà. Insomma si tratta di una performance divisa in due distinte parti ma che, come per quella di Sciarroni, presenta una ricerca e un’indagine sui limiti della danza. Ricerca che non ha paura di mettere in discussione i suoi principi, andando a verificare se la ricerca di un equilibrio quale che sia possa divenire essa stessa elemento coreografico. In pratica se si possa fare danza in ambienti ostili.

Invece, con la coreografa Chiara Frigo, che in coppia con Emmanuel Jouthe, ha presentato sabato 27 al Palladium When we were old, un testo di 55’, l’aspetto teatrale sopravanza quello coreografico, nel senso che cresce il peso del primo a discapito dell’altro, anche se quest’ultimo, rispetto ai due predenti eventi, ha una resa espressiva più brillante e netta. I brani di danza, che si vanno ad incastrare nella messa in scena hanno chiarezza di linee e di movimenti, cosa assente negli altri due spettacoli. Il tappeto sonoro presenta una serie di campionamenti, ma il ritmo è più avvolgente e armonico, e di tanto in tanto invaso da vere e proprie tracce musicali. Lo spazio scenico viene utilizzato completamente e la Frigo alla fine realizza un paesaggio desolante facendo ricorso a tutti gli elementi della scena, compresi i tappeti, che vengono sollevati, riempiti di movimento con i corpi che si infilano al di sotto, riversi o usati come drappi avvolgenti. Legno, metallo, sedie, alberi secchi, pvc sono i pochi oggetti di scena che cambiano uso e spazio per creare un desolato e entropico approdo finale: un paesaggio martoriato che si spegne lentamente davanti al pubblico in un blu elettrico, quasi futuristico tramonto, a cui si approda dopo essere partiti dalla chiarezza minimalista dell’inizio. Nel complesso però la ricerca dei due performer tende verso la compenetrazione di teatro, danza e parola, dove le tre dimensioni performative, quasi tutte sullo stesso piano, sono piegate verso la costruzione di un “paesaggio” di senso. È infatti il senso (e non il gesto, la parola o la rappresentazione) il fine ultimo cui tendono i due coreografi e a quel fine sono piegati tutti gli elementi performativi, di cui nessuno da solo riesce più a individuare o fornire o tracciare il significato. Dunque anche qui lo scavo e la ricerca finiscono per mettere in secondo piano la danza stessa. L’elemento coreografico non basta più da solo a fornire un senso del mondo. E forse non bastano più nemmeno parola, luce, atto teatrale e movimento fusi insieme. La ricerca è totalmente aperta e lo studio del segno coreografico ne è una parte e, forse, non la più importante!

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