Nella notte del 18 marzo la guerra è tornata a Gaza con una potenza devastante. Mentre mediatori tentavano di negoziare una nuova tregua con Hamas, Israele lanciava un attacco a sorpresa via mare e aria, segnando una delle giornate più sanguinose dall’inizio del conflitto, con oltre 400 morti secondo le autorità sanitarie locali. Ufficialmente, l’operazione mirava a colpire funzionari di medio livello di Hamas. Di fatto, ha colpito anche donne, bambini e civili intrappolati nelle loro case, accendendo proteste globali e rabbia tra gli stessi israeliani, soprattutto tra le famiglie degli ostaggi.
Dietro la decisione di rompere la tregua, Israele ha ammesso – secondo analisti militari e fonti ufficiali – di aver deliberatamente violato l’accordo raggiunto a gennaio sotto l’amministrazione Biden. L’intesa prevedeva, entro il sedicesimo giorno, l’inizio di colloqui per una fine permanente del conflitto. Israele ha rifiutato, non volendo avviare negoziati finché Hamas restava al potere a Gaza. Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, il governo Netanyahu ha cercato nuovi termini, sostenuti dall’inviato mediorientale Steve Witkoff: più ostaggi rilasciati prima di iniziare le trattative. Hamas, invece, è rimasto fermo sull’accordo iniziale, creando uno stallo.
Durante la tregua, Hamas aveva cominciato a riorganizzarsi, riemergendo dai tunnel, ricollegando la rete amministrativa e persino tentando di riutilizzare munizioni inesplose per ricostruire il proprio arsenale. Israele ha risposto con un blocco totale degli aiuti per esercitare pressione. Ma mentre le trattative venivano condotte in segreto – e poi interrotte a causa di fughe di notizie – Hamas non ha rilasciato nuovi ostaggi né ha mostrato flessibilità.
La ripresa del conflitto ha offerto a Netanyahu anche una via d’uscita da una crisi politica interna. Con un bilancio da approvare entro due settimane per evitare elezioni anticipate, il ritorno alla guerra gli ha permesso di ricucire i rapporti con l’alleato di estrema destra Itamar Ben Gvir, uscito dalla coalizione proprio a causa della tregua di gennaio. Inoltre, il conflitto ha distratto l’opinione pubblica dal tentativo del premier di licenziare il capo dello Shin Bet, in mezzo a una bufera su presunte consulenze clandestine con il Qatar condotte da suoi stretti collaboratori. Tutto questo ha alimentato l’idea – ormai diffusa – che Netanyahu stia cercando di consolidare un potere autoritario sfruttando lo stato di guerra.
Intanto, il riaccendersi del conflitto a Gaza ha spinto i ribelli Houthi dello Yemen a riprendere gli attacchi missilistici verso Israele, uno dei quali è stato intercettato il giorno stesso della ripresa delle ostilità. Gli Stati Uniti hanno risposto colpendo obiettivi Houthi in Yemen e prevenendo una ritorsione su una nave da guerra statunitense. Il presidente Trump ha lanciato un monito all’Iran, sostenitore degli Houthi, minacciando “gravi conseguenze”. Secondo alcuni analisti israeliani, cresce ora la probabilità di un attacco coordinato su obiettivi iraniani, in particolare sul programma nucleare di Teheran, obiettivo dichiarato da tempo da Tel Aviv.
In questo scenario tesissimo, le famiglie degli ostaggi temono che la ripresa della guerra possa compromettere le possibilità di salvataggio dei loro cari. La guerra è tornata, e con essa un nuovo capitolo di sofferenze e incertezze per la popolazione di Gaza e per un intero Medio Oriente sempre più vicino al baratro.