Veduta di Damasco (foto di © Vyacheslav Argenberg / http://www.vascoplanet.com/, CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=99694673)

Damasco si è svegliata in una realtà nuova, ancora avvolta dal fumo dei combattimenti, ma già trasformata da una gioia incontenibile. Dopo cinquant’anni di governo dinastico, il regime di Bashar al-Assad è crollato improvvisamente con la fuga del presidente a Mosca. Migliaia di persone sono scese in strada, sventolando la bandiera della rivoluzione siriana, abbattendo statue e ritratti del leader e di suo padre Hafez. Le vie della capitale sono state percorse da clacson festosi, spari celebrativi e lacrime di commozione, mentre famiglie si riabbracciavano dopo anni di separazione forzata nelle prigioni del regime.

Scene di festa si sono alternate a momenti di stupore e incredulità. Alcuni siriani sono entrati nel palazzo presidenziale, esplorando stanze decorate con tappeti rossi e ricoperte di detriti, scoprendo auto di lusso e beni di consumo sfarzosi, in un Paese in cui il 90% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. La notizia della fuga di Assad ha trovato conferma nelle agenzie di stampa russe, che hanno annunciato il suo arrivo a Mosca, dove avrebbe ricevuto asilo per motivi umanitari. Lungo l’autostrada che collega Beirut a Damasco, si moltiplicavano le uniformi militari abbandonate, segno tangibile di un esercito ormai privo di guida e motivazione.

Il collasso del regime è stato innescato da un’improvvisa offensiva dei ribelli, guidata dal gruppo islamista Hayat Tahrir al-Sham (HTS) e supportata dall’Esercito Nazionale Siriano (SNA), alleato della Turchia. Approfittando della distrazione di Russia, Iran ed Hezbollah – impegnati rispettivamente in Ucraina e nel conflitto con Israele – i ribelli hanno conquistato città dopo città, fino a raggiungere la capitale. Un portavoce dell’opposizione, parlando in diretta televisiva da Damasco, ha annunciato la vittoria della rivoluzione siriana dopo tredici anni di lotta e sacrifici.

Nonostante l’euforia, la situazione resta complessa. Combattimenti continuano in aree contese come Manbij, tra ribelli arabi e forze curde siriane. A Latakia e Tartus, tradizionali roccaforti del regime sulla costa, non è ancora chiaro chi detenga il controllo. Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno condotto oltre 75 attacchi aerei contro cellule dello Stato Islamico nel centro del Paese, mentre Israele ha bombardato depositi di armi appartenenti al regime e ad Hezbollah, preoccupato che finissero in mani sbagliate.

Il capo di HTS, Abu Mohammed al-Jolani, apparso pubblicamente nella moschea degli Omayyadi nel cuore della capitale, ha confermato che il primo ministro Mohammed Ghazi al-Jalali rimarrà alla guida di un governo di transizione. Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. Il segretario generale dell’ONU, António Guterres, ha salutato la fine del “regime dittatoriale” e ha esortato alla ricostruzione pacifica del Paese. Il presidente statunitense Joe Biden ha definito la caduta di Assad un “atto fondamentale di giustizia”, pur riconoscendo i rischi e le incertezze del momento.

Per ora, Damasco resta sospesa tra la fine di un incubo e l’inizio di un incerto domani. I siriani celebrano, consapevoli che la libertà appena conquistata dovrà essere difesa. Le cicatrici della guerra, che ha causato più di 300.000 morti, 100.000 dispersi e milioni di sfollati, non si rimargineranno facilmente. Ma per molti, oggi è un giorno da ricordare, un giorno in cui, finalmente, si può dire che il regime è caduto.

Di Emanuele Gualandri

Laureato in Politica e Diritto internazionale all'Università Statale di Milano. Ha lavorato su Milano come videogiornalista occupandosi di casi di cronaca locale e nazionale nonché politica e movimenti sociali. Ha realizzato analisi sotto forma di video-approfondimenti su YouTube per la pagina di informazione “inBreve”, attirando migliaia di visitatori. Al momento si trova a Bruxelles per conseguire un master in giornalismo e media alla Vub (Vrije Universiteit Brussel).