Roma, martedì 20 marzo 2012 – “L’abito bianco, lustrini, smeraldi…voglio scegliere” dice Claire, alias l’attrice Micaela Sangermano con tono di voce calante ed aristocratico mentre imita La dispotica Signora, e prosegue umiliando Solange con: “Chinatevi di più”. Il racconto trae spunto da un fatto accaduto realmente in Francia nel 1933, in cui due sorelle cameriere, a servizio da una ricca e borghese Signora, esauste della propria servile condizione si macchiano di pluri-omicidio. Il testo di Jean Genet e la suggestiva riscrittura dell’opera a cura di Paolo Perelli scavano senza pietà nella psiche dei personaggi, avvinghiati l’un l’altro tra scarso livello di autostima e senso d’inadeguatezza, alla ricerca di pulsioni non palesabili. Dalla recitazione al ballo in un’alternanza di ruoli in cui ciascuna delle due sorelle a turno veste i panni dell’altra e della Signora, per far le prove dell’uccisione della despota. “Vi odio, credevate di potervi permetter tutto? Di poter frodare il cielo con la bellezza e di poterne privare me?” urla in scena con affanno l’attrice Viola Creti nei panni di Solange. Il risentimento verso la Signora altri non è che la proiezione del rifiuto della propria condizione sociale di subalternità. La recitazione è spontanea, lancinante e persino commovente, come se le stesse attrici protagoniste si cimentassero seppur nella finzione in una sorta di cerimoniale d’affrancazione da proprie eventuali frustrazioni.

 I personaggi son individui fragili il cui senso d’inadeguatezza scava un solco che ammala la psiche e conduce ad istinti violenti ed oscuri al crocevia tra sadismo ed autolesionismo. Le due sorelle albergano in un’atmosfera irreale in cui ogni singolo atto appare alterato ed ingigantito, è come se la loro mente fosse talmente ricolma di rabbia da non poter contenere un singolo pensiero per quello che è. La rabbia del vivere in condizioni di costrizione le conduce al denigrar tutti e soprattutto sé stesse. Ma la cerimonia d’annientamento delle proprie frustrazioni verrà mai portata a compimento? Si concluderà con l’uccisione di chi le costringe all’umiliazione? “Odio la razza ripugnante e vile dei domestici, essi non appartengon all’umanità…Sbrigatevi…ed evitate di strusciarvi a me…Ma da quale fetida soffitta riportate queste puzze?” urla più volte in scena con aria allucinata e schernitoria Claire, alias Micaela Sangermano. Personalità instabili ed inquiete a tratti insicure a tratti autoritarie alle prese con un ossessivo scambio di ruoli nel fallimentare tentativo di liberarsi dall’onnipresente ed opprimente Signora. “Nessuno che ci voglia bene” dice Viola Creti nel difficile ruolo di Solange, interpretato tempo addietro dalla grande Franca Valeri, e prosegue: “Lei ci vuol bene come alla porcellana del suo cesso. E noi non possiamo volerci bene…siamo il lerciume”.

 Il regista sulla scia di un ruvido testo, pur tra il buio dei torbidi personaggi nell’alternanza tra sogno e disperazione, realizza scene di estrema poeticità con l’ausilio del suggestivo sottofondo musicale delle canzoni di Vinicio Capossela. Solange, alias Viola Creti, immedesimandosi nella Signora in abito bianco che accompagna in un viaggio surreale il suo amante al penitenziario, fa un gesto con la mano e sorride rivolta al pubblico come fosse quest’ultima che saluta da ‘La Martinière’ la nave dei deportati in Guyana francese, mentre si diffondono le melanconiche note della canzone “Ultimo amore”. “Ci vuol bene” dice Claire, alias Micaela Sangermano mentre dondola amorevolmente in braccio un ombrellino al cui manico è appuntato un cappello rivestito di lungo velo bianco che volteggia in aria quasi a danzar con lei mentre la canzone “Non è l’amore che va via” invade di note struggenti la sala del teatro.

 La regia avvalendosi di luci, musica e movenze coreografiche sottolinea con maestria il clima sognante che aleggia nella mente disturbata delle due donne. Brave le interpreti nell’aver saputo rendere l’animo delle protagoniste della pièce teatrale e l’atmosfera allucinata del dramma della follia mantenendosi sul filo del realismo. Entrambe portano in scena con disinvoltura il non facile ruolo di persone affette da psicopatie e pulsioni assassine dominatrici. Rabbia, pianto, risate sarcastiche. L’inquietudine per la vacuità del vivere, un impulso d’odio delirante esteso disperatamente a tutto, che tenta invano attraverso il crimine di dare un senso all’esistenza. Ma il delitto è sventura e non conduce mai al superamento dei propri turbamenti né al riscatto sociale…neanche per Claire e Solange che restano lì poeticamente sullo sfondo come un pensiero triste…un quadro incompiuto.

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