Roma, venerdì 24 marzo 2017 – Ma è il titolo del monologo che fino al 26 marzo sarà al Teatro India di Roma. Diretto da Antonio Latella, è recitato da Candida Nieri, che troviamo già in scena al momento dell’ingresso in sala. Ma è la mamma di Pier Paolo Pasolini; e l’attrice che la interpreta si presenta in una tenuta surreale: seduta su una sedia, in mezzo ad una scenografia vuota, con un microfono in mano, illuminata da un cono di luce e con due enormi scarpe nere ai piedi. E quando si scrive enormi si intende proprio enormi, gigantesche, sproporzionate. Dovrebbero funzionare da elemento simbolico: significando la pesantezza e l’impossibilità di correre via, di evadere, di non assistere alla tragedia in fondo annunciata dell’assassinio di PPP. Alla fine però sono ridicole e surreali, ma su questo ci torneremo dopo. Lo spettacolo è la lunga lamentazione in morte del figlio. Uno sconclusionato, illogico discorso, in parte urlato, in parte detto, o sospirato, dove la donna, squassata dall’angoscia e a dal dolore per la perdita del figlio, si lascia andare in un grido masochistico, accusatorio e autoaccusatorio. Un atteggiamento umano che dovrebbe sollevare la pietà degli spettatori per una mamma assalita da un dolore insopprimibile, in cui la ragione viene meno e lo sfogo – che condurrà all’elaborazione del lutto – lascia filtrare i momenti di una vita passata insieme, sentimenti e sensazioni che cercano di ritrovare il senso di un percorso comune.

Ad emergere però è una logica personale. Una logica priva di significato e che difficilmente può essere compresa per chi non ha fatto parte di uno dei due terminali del rapporto Ma-PPP. Le tessere per lo spettatore sono in disordine e lo resteranno per tutto lo spazio del monologo. Il senso non affiora dalla lamentazione. Affiorano solo scarsi frammenti di un discorso “amoroso”, interrotto bruscamente dalla morte. E in questi frammenti, oltre alla rabbia che il dolore genera, si colgono alcuni punti, alcune direttrici, alcuni elementi della vita di PPP, che sono peraltro noti a tutti. Primeggia al centro la trasformazione di Ma in Vergine Maria. Una trasformazione a cui è sottoposta suo malgrado la donna, incapace di opporsi al figlio per inerzia, per inedia, per amore, forse anche per spirito di sopportazione. E che adesso ricusa nel dolore della perdita. PPP è condannato a morte da una società estranea e sorda alla sua tensione morale e intellettuale. In questo è comparabile alla figura di Cristo. Per equazione allora la madre è paragonabile alla Vergine Maria. La citazione di un verso immortale di Dante (“figlia del tuo figlio”), all’interno del monologo, formalizza questa similitudine per il pubblico. Va ricordato però che fu lo stesso poeta che istituì a suo tempo questo paragone, volendola come attrice nel ruolo della Madonna, in Il vangelo secondo Matteo. Si tratta quindi di un accostamento che il regista e la drammaturga assumono, facendone un elemento centrale e rendendo ancora più incisivo l’atto accusatorio e ricusatorio della donna, al secolo Susanna Colussi, che fu maestra elementare.

Detto questo, e ritrovato a fatica il bandolo della matassa di un testo teatrale criptico (spesso l’arte contemporanea è un rebus che va svelato, ricostruito, e i cui pezzi vanno rimessi a posto come un quadro cubista in forma di puzzle), c’è da dire che lo spettacolo resta slegato dal contesto sociale. È una piéce narcisistica, che basta a se stessa e mette in mostra la freddezza visiva della perfezione scenica. La figura di Ma è unica, non assurge a simbolo universale ma rimane particolare. La sua trasformazione in Vergine laica la rende ancora più unica e poco incline ad essere paragonabile al dolore di altre madri. Il monologo è infarcito di richiami aulici, tra brani di opere di Pasolini e inserti della vita del poeta. Anche questo rende meno godibile il testo, perché costringe lo spettatore a non abbandonarsi al flusso del discorso, cercando attraverso la pietà di entrare in simbiosi con la donna e provare attraverso l’immaginazione quello che lei stessa prova. È una splendida raffigurazione barocca, dove la forma prevale sulla sostanza, il gesto sulla vita e il simbolo è preponderante a tal punto che il regista lo vuole visibile e voluminoso – anche a rischio di scadere nel ridicolo; lo vuole concretizzato in elementi tangibili. Lo sono le enormi scarpe, che dovrebbero esprimere l’impossibilità di Ma di fuggire dal ruolo che le ha ritagliato PPP con la sua vita e la sua opera. Alla fine però l’elefantiasi dell’oggetto scenico trasforma il simbolo in elemento surreale, come fossimo in un quadro di Magritte, rovinando nel comico l’apice tragico della scena madre. Lo spettacolo non dona emozioni. È una piéce autoreferenziale, forse perfetta in molte parti, ma fredda, inutile e noiosa come tante pale di altare.