Roma, martedì 22 gennaio 2013 – Una fiaba russa del 1942, scritta dal drammaturgo Evgenij Schwarz durante la seconda guerra mondiale, è la storia scelta dalla regista Beatrice Gregorini che porta “Il Drago” e la sua morale fiabesca al Teatro Colosseo fino al 16 dicembre. Un filo aggrovigliato fuoriesce dal palco suggerendo allo spettatore di seguirlo. Il colore bianco invade ogni cosa, come un velo che ricopre la scena accecando i cittadini e distruggendo l’umanità. Il colore della purezza ma anche della rassegnazione e della mancanza di coscienza. Un filo che conduce all’interno di una storia surreale, una parentesi di colori sfocati, pareti di un mondo interiore in cui risuona l’eco delle pagine nere della storia del mondo. La versione di Gregorini si adatta al rassicurante “C’era una volta” non privandosi di un largo uso di metafore. Rende così lo spettacolo apprezzabile dalla famiglia al completo, un classico fiabesco in cui si cela un’ironica relazione con la storia dell’uomo. I personaggi legati all’infanzia ci sono tutti: il drago cattivo, il cavaliere, la fanciulla da salvare, il paese incantato, il finto buono, il “gatto parlante”.

Il palco ancora è vuoto, le luci spente. Ad aprire lo spettacolo è la voce insistente, fin troppo reale di un dittatore, che dissolve un po’ di magia. Poi l’incanto ha inizio. Un suggestivo paesaggio surreale, una città fittizia, personaggi apparentemente spensierati e assolti nelle loro attività quotidiane. Uno scenario che permette di essere apprezzato nei singoli dettagli grazie all’uso di una moviola umana. L’atmosfera si spezza nuovamente con la brusca irruzione del mostro, un drago a tre teste, a rappresentare la mutevolezza del potere. Questo essere non umano che divora la città e l’umanità e che ruba le coscienze dei cittadini è la guerra, pronta a incenerire chiunque ostacoli il suo passaggio. Il sole si oscura, il drago vola sulla città, una nube nera a cui nulla sfugge e a cui non c’è riparo. Quel filo che si snoda sul palco, come un tunnel per entrare nella storia, è lo stesso che porterà alla via d’uscita. Gli abitanti e gli spettatori perdono l’orientamento in un mondo che rappresenta la propria interiorità. Il mostro, il drago, la guerra, è qualcosa che abita dentro ognuno di noi. Il Lancillotto è un eroe che arriva a salvare le anime, che non ha perso il filo durante il suo viaggio, è la luce della felicità, un brillio che pur essendo lontano è comunque presente. Nero e bianco si sfidano, una lotta tra opposti che è accompagnata da proiezioni di paesaggi paradisiaci ma reali. Montagne, fiumi, pianure. La vera essenza dell’uomo si trova nella natura: acqua, aria, terra, fuoco rappresentano le forze del bene. Il male è l’allontanamento dell’uomo dalla propria natura e quindi dalla libertà. Quando i cittadini ritrovano la propria coscienza, il drago perde potere e credibilità. Il mostro, a cui ormai non crede più nessuno, si vede così costretto a fare le valigie e andarsene.

A rappresentare le molteplice forma del mostro è Giuseppe Santilli, attore e ideatore inoltre dei costumi di tutti i personaggi. “Hanno la pelle color lillà, testa a punta o piatta, costretti in camici, indossati al contrario, a ricordare le camicie di forza dei “pazzi”, imprigionati, alienati allo slancio vitale, alla libertà. Personaggi inconsistenti, come la scena, una gabbia bianca”, spiega la regista, che vuole un look di grande effetto visivo, reso possibile dalla make up artist Valentina Sarti Magi. Attori dinamici, attenti alla minuziosa caratterizzazione dei loro personaggi sono Francesco Bauco, Claudio Zarlocchi, Francesca Petretto, Alessandra Chiappa e Giuseppe Arnone, di cui vengono proiettati sullo sfondo i profili, sottolineando il lato umano dei cittadini e sfumando quello surreale. Con i toni leggeri della favola, la storia mette in luce gli effetti perversi della dittatura. “Il drago” di Schwarz è un’accusa contro le tirannie, dal nazismo alla dittatura sovietica che ne impedì la rappresentazione a Mosca, a causa dei rapporti tra l’Urss e la Germania, ma anche contro la rassegnazione delle collettività europea, sottomessa e incapace di ribellarsi. L’intento dello scrittore è di far capire che il vero pericolo non è il drago, ma chi lascia la porta aperta permettendogli di entrare.

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