Roma, lunedì 11 marzo 2013 – Fino al 3 marzo al Teatro Sala Uno è andato in scena il primo testo di drammaturgia di Pirandello, “La Morsa”, che l’autore stesso definisce “un epilogo in un unico atto”. Circa un’ora di spettacolo in un crescendo drammatico di suspense e di violenza psicologica, un testo che anticipa il thriller psicologico Hitchcockiano. Portato in scena la prima volta nel 1910 al teatro Metastasio di Roma viene riadattato dalla regia di Paolo Zuccari, volto già visto nelle serie televisive come Distretto di polizia e Medicina generale.

Le mura di un appartamento insonorizzano l’urlo di un’esistenza fatta di ansia e angoscia: il timore di essere scoperti, la volontà di vendetta. Una stanza di tortura che stringe i protagonisti in una morsa. Il sospetto e il tradimento sono ospiti imprevisti che bussano alla porta e interrompono la tranquillità della routine quotidiana, sconvolgendo l’ordine e l’armonia della realtà. La protagonista Giulia (Stefania Micheli) è oppressa e schiacciata dalle accuse del marito Andrea (Zuccari), che ha scoperto la sua relazione con Antonio. Personaggi avvolto nel dubbio: una nube interiore pronta a diventare la tempesta di cui è vittima. Un conflitto tra innocenza e colpa, incertezza e viltà, sentimenti in contrasto che si scontrano sulla scena anche attraverso la scelta dei colori, dei vestiti e degli elementi scenici che si limitano al bianco e nero: una partita tra opposti. Gli attori si muovono da una stanza all’altra freneticamente, in spazi delineati unicamente dai movimenti scenici, dall’immaginazione, ma in realtà aperti. L’unica porta esistente è quella da cui entra l’amante e poi il marito, interpretati entrambi dallo stesso Zuccari, un rimando agli “Amanti” di Pinter. La casa, un labirinto della mente senza via d’uscita, pareti inesistenti dietro cui spiare, nascondersi e sentirsi protetti; movimenti che si ripetono, un avanti-indietro ossessivo che porta al delirio e alla paranoia.

Il personaggio di Zuccari si sdoppia, come il dottor Jeckyll che non riesce a tenere sotto controllo il suo alter ego, un marito che è anche amante, in una metamorfosi in cui non si riconosce più e in cui anche l’adulterio è forse immaginario, come d’altronde il matrimonio stesso. Gli occhi della domestica Anna (Caterina Bertone) sono lo sguardo dello spettatore che assiste e partecipa alla tragedia, osservata senza poter interagire o impedire il dramma. Il buio e la solitudine in cui si ritrova il protagonista maschile alla fine, sembrano annullare la tragedia appena avvenuta e la presenza degli altri personaggi: la moglie, protagonista fino a un momento prima, l’amante, la domestica e i figli, mai sul palco ma solo evocati. Nessun dettaglio all’interno della casa riporta la presenza effettiva di una famiglia, nessuna foto, nessun oggetto personale. Pochi elementi disposti in ordine, come assenti, in un’immobilità che cristallizza, una casa senza luogo e senza tempo, dove anche la morta diventa un episodio privo di spessore, di tragicità. L’unico sguardo fuori dalla finestra è quello di Giulia, una boccata d’aria che lo spettatore può solo fantasticare.

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