Roma, martedì 7 dicembre 2010 – Dal 24 novembre il Teatro Agorà porta in scena “La Cerimonia” uno dei testi più coinvolgenti di Giuseppe Manfridi, per la regia di Annalisa Rossi, nel ruolo di attrice protagonista, coadiuvata in palcoscenico dall’attore Stefano Persiani. Musiche di Claudio Rosati. “Ci siamo mai amati?” E’ la regista stessa che, nei panni della protagonista, si rivolge al suo partner di scena, e svela con chiarezza allo spettatore la percezione di una straziante emotività. “I minuti sono stati il rogo della nostra storia” rincalza il suo partner dopo poche battute. La storia dei personaggi rappresentati è già carica di contenuto, ma se a narrarla attraverso gli attori è ognuno di noi, la realtà irrompe fortemente nella rappresentazione e quest’ultima diventa il nostro nostalgico presente. Si tratta di due amanti che oltre il tempo e lo spazio vagano alla ricerca del loro amore. E’ il reciproco bisogno di essere amati che spinge i due l’uno verso l’altro, ma amore non è. Amore è altro: non è rabbia o conflitto, non è pretesa o rivendicazione. Lui dice a lei: “Facevi a pezzi tutti gli specchi dentro casa, tranne uno: me”. E’ come se i componenti di questa giovane coppia non avessero un’identità definita, come se ognuno di loro ricercasse la completezza del proprio essere specchiandosi nell’altro. La frustrazione dei propri sentimenti conduce i protagonisti ad un senso di conclamata solitudine tale, che gli impedirà di accostarsi l’un l’altro persino nella finzione scenica dell’abbraccio.

“Noi l’abbiamo fatta finita molto tempo dopo esserci già abbandonati. In realtà l’abbandono ci è servito per poter maturare l’idea di farla finita. Per questo abbiamo vissuto da abbandonati nella stessa casa e nello stesso letto per più di due anni. In una solitudine mostruosa, ma necessaria. L’uno senza l’altro, ma vicini…”. L’incapacità di andare oltre i propri limiti, conduce la coppia al tentativo di superarli tramite l’alienazione, e nel disperato tentativo di rifuggire ad una vita inutile, scandita da silenzi ed incomunicabilità, i due giungono ad un paradossale riavvicinamento attraverso la decisione di abbandonare il mondo: evitare la vita per non soffrire della violenza del proprio sentire. Ognuno di loro fugge da se stesso e dagli altri per non dover sopportare il peso del disamore. La vicenda dei due diventa pretesto per scavare in uno dei problemi sociali della modernità, ovvero nell’odierna tendenza a vivere isolandosi da se e dagli altri, per l’incapacità di affrontare la vita con le sue problematiche ed i suoi fallimenti esistenziali. Attraverso una motivazione condivisa – la fuga dal mondo – i due tentano di ritrovare sé stessi, ma l’autolesionismo li conduce, non alla vera condivisione, ma all’aggrapparsi eternamente, l’uno l’altro, persino in un’altra dimensione. Quel “Mai più soli” proclama il non saper dare una conclusione alla loro storia per liberarsi dal proprio bisogno, dal proprio dolore. La tecnica espressiva scelta dalla regia è in linea con il testo dell’autore volto al portare alla luce l’estrema sofferenza esistenziale dei protagonisti. E’ il movimento dei personaggi in scena, il principale elemento rivelatore dei loro conflitti interni e del loro disperato tentativo di rifuggire alle proprie frustrazioni. I due si contrappongono l’un l’altro in differente modalità: mentre lei con gestualità danzante è come se cullasse sé stessa a conforto del suo vuoto d’amore, lui con i suoi scatti nervosi e la sua impazienza fugge nervosamente ad esso. L’assenza di scenografia è funzionale alla creazione dell’atmosfera del non luogo, in realtà il luogo di incontro dei due non è un luogo definito ma uno spazio di comunicazione possibile per l’uomo moderno oppresso dall’incomunicabilità.

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