Roma, mercoledì 14 maggio 2014 – Primo Greganti e Gianstefano Frigerio, insieme ad altri, sono sotto inchiesta per un presunto giro di tangenti per i lavori all’Expò 2015 di Milano. Questa è la notizia della settimana che ha fatto il giro del mondo, dimostrando ancora una volta che in Italia alla corruzione non c’è soluzione di continuità. Tutti i media nazionali ne parlano, come è giusto che sia, e la classe politica e dirigente appare sempre più incapace, anche in questo momento di grande difficoltà economica per tante famiglie italiane, a redimere se stessa e a guardare per una volta al bene del Paese. La gravità dello scandalo, che agli occhi degli italiani sembra quasi impercettibile, perché da tempo abituati a questo genere di notizie, non è tanto e non solo perchè il fatto era abbastanza prevedibile sin dal primo momento in cui l’Italia ha vinto il concorso per l’Expò. O perché le finanze pubbliche, da anni in continua Spending Review, vengono aggravate di costi che nulla hanno a che fare con le opere programmate, ma solo con la politica che si appropria di denari non suoi. Ma perché gli attori principali di questo nuovo scandalo italiano sono gli stessi di 20 anni fa. La Prima Repubblica non è mai stata superata e la realtà sopravanza di gran lunga la fantasia. Chi avrebbe mai immaginato che gli stessi attori del 1992 avrebbero commessi gli stessi reati, per gli stessi motivi, occupando più o meno gli stessi posti chiave nel 2014?

Greganti e Frigerio sono stati presi con le mani nel sacco durante le indagini del Pool Mani Pulite, che avrebbe dovuto sotterrare la Prima Repubblica. Hanno scontato la loro pena, confermata fino al terzo grado di giudizio. E poi? E poi sono tornati a esercitare con esperienza e professionalità il loro lavoro, ricoprendo cariche importanti che solo la politica poteva dare loro, fino ad arrivare ad occuparsi di un evento come l’Expò. Ora tra tutti questi scandali uno ancora può essere additato alla pubblica opinione, così tanto per prendersi lo sfizio di aggiungerne un altro e girare il coltello nelle proprie carni. Ma dove erano i cani da guardia della democrazia? No perché ieri sera a Ballarò Paolo Mieli, tra i tanti discorsi buttati al vento dagli ospiti di Floris per giustificare la politica e in qualche modo sottrarla a questo ennesimo, prevedibile, annunciato scandalo, ha centrato una parte di verità. Chi ha messo nuovamente in posti chiave per la gestione degli appalti Greganti e Frigerio? Lì sono i colpevoli e lì si ritrova la malafede della politica, se la politica lo ha fatto (ma in un Paese dove nulla si muove se non lo vuole la politica è davvero difficile credere il contrario). A Mieli si potrebbe però obbiettare, ma dove erano i giornalisti, i bravi reporter d’inchiesta, i Saviano, i Santoro, i Gomez, i Bonini, i Diacona, Report? Perché non hanno indagato e denunciato subito che in posti chiave erano approdati due condannati della Prima Repubblica?

È chiaro che in Italia la stampa non è un quarto potere. È chiaro anche che in Italia non c’è un potere che possa controllare e denunciare l’operato e le malversazioni della politica. Non c’è un potere di controllo, perché manca sostanzialmente il destinatario di questo ipotetico controllo. A che pro verificare in maniera preventiva le azioni della politica (e in un paese pieno di scandali come il nostro sarebbe doveroso e anche un obbligo), se poi manca un’opinione pubblica in grado di indignarsi e di prendere efficaci contromisure in sede elettorale, e non solo? Quello che manca in Italia è una vera coscienza civile capace di plasmare e creare un’opinione pubblica in grado di indignarsi e di agire con immediatezza, con scioperi e dimostrazioni di piazza che mettano in difficoltà governo e governanti. Questo non c’è mai stato e probabilmente non ci sarà mai nel nostro Paese. Lo scandalo Expò di questi giorni è l’ennesimo scandalo che passerà via non appena i giornali torneranno ad occuparsi di altro. Forse, invece che scappare via dall’Europa, sarebbe meglio chiedere di essere annessi, di rinunciare alla nostra sovranità e per un certo periodo, due-trecento anni, lasciare che altri ci guidino e ci insegnino cosa sia la civiltà.