Roma, lunedì 18 marzo 2013 – In scena al teatro Stanze Segrete fino a ieri “Buonanotte mamma”, diretto da Giuseppe Oppedisano e interpretato da Alessandra Ferro e Maurizia Grossi. “Una di quelle storie dove la parola non colma e non colmerà mai l’esplodere di sentimenti. Una grande prova attoriale dove il recitare è un limite. È necessario interpretare, immedesimarsi, rivivere”, spiega il regista. ‘Night, mother, il titolo originale dello spettacolo, alterna lucidità e disperazione, un contrasto che arriva prima al cuore, poi alla vista, facendo vivere il dramma insieme e attraverso le due donne.

Jessie e Thelma sono le protagoniste della scena. Un duo familiare in cui a intromettersi sono solo le telefonate di personaggi che entrano nel vortice emotivo ma che restano di contorno. Un atto unico, come un flash all’interno di una casa come tante, una famiglia come tante, dove l’ambiente familiare è l’unico luogo di vita. A prendere polvere sembrano gli oggetti presenti in scena: due sedie, il tavolino e le varie cianfrusaglie che si accumulano giorno dopo giorno, cose che un tempo avevano un valore, mentre ora sembrano fondersi coi muri, invisibili come le cose a cui ci si abitua: il disordine, i malesseri, la solitudine. Ma Jessie sembra più decisa del solito, stavolta sarà una pulizia totale, senza nostalgie né rimpianti.

Madre e figlia vivono insieme da anni ormai, una rimasta vedova, l’altra tornata single, abbandonata dal marito e dal figlio tossicodipendente. Una convivenza fatta di routine che non ha portato altro che tanta polvere sotto il tappeto. Un evento insolito che distoglie e rianima dal torpore e dalla monotonia del loro rapporto. È un sabato sera diverso dagli altri, quello in cui Thelma osserva Jessie tranquillamente immersa nel pulire e lucidare la pistola del padre, da anni sepolta in soffitta. La soffitta, il posto delle cose dimenticate, dove i fantasmi del passato continuano a vivere a dispetto del nostro disinteresse, intrappolati in fotografie ingiallite e in vecchi ricordi, in album di bambini in cui non ci si riconosce più, perchè sorridono e non conoscono la malattia, né la solitudine. “Non ero io – dice Jessie con tono affranto e sconsolato, mentre guarda una foto della sua infanzia – era qualcun altro. Qualcuno che ho perso, qualcuno che ho aspettato e non è mai venuto: me stessa”.

Il sottofondo musicale allegro (Lollipop delle Chordettes e Que sera di Doris Day) rispecchia l’umorismo nero tipico di Marsha Norman. ma rimanda anche all’atmosfera dell’Italia degli anni del dopoguerra. Canzoni spensierate per nascondere la difficoltà di rimettere insieme i cocci di una famiglia distrutta, nonostante l’apparente integrità. Un pavimento di assi sconnesse, quello su cui Jessie si incammina senza timore. “Buonanotte mamma”, annuncia. Una naturalezza e una calma glaciale che contrastano con il lento sprofondare nell’angoscia della madre. La buonanotte risuona tra le pareti, un colpo assordante, un dubbio che lacera il cuore. Le due attrici si muovono nella parte avvolgendo il pubblico nella loro stessa intimità. Non ci sono barriere tra spettatori e protagoniste, nessuna platea a dividere lo scenario di chi vive la parte e di chi la osserva. Il dramma è di tutti. Il dialogo madre-figlia diventa una lotta, un confronto inevitabile tra due donne che fino a quel momento si erano adagiate nell’incapacità di comunicare e di comprendersi. Ma Jessie, con lo sguardo perso, sembra già andata via.

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