Roma, venerdì 11 luglio 2014 – Oggi parliamo di teatro. Di quello sano. Che nasce da dentro e che guarda in basso, dritto in faccia alle persone, che segue i sentieri che hanno percorso nei loro occhi. Una passeggiata nell’anima e dintorni, fatti di vicoli, di Napoli e panni stesi ad asciugare, di vita che profuma di coraggio e speranza, nonostante abbia cucito addosso quella maledetta cronaca nera. Oggi decidiamo di passeggiare in quei posti, illuminati dalla magia del suo teatro. A farci da guida è il regista-attore Raffaele Bruno, che del teatro ha fatto la sua strada. Una piacevole intervista che molto lascia nel cuore e, si spera, in quanti, in quei vicoli continuano a vederci solo sangue e cenere.

Teatro. Cosa rappresenta per te?

Parto da una citazione: “Il teatro è incontro di uomini, tutto il resto serve solo a confondere” (Bergman). Il teatro è per me uno strumento fondamentale per permettere di elevarsi, mi riferisco in particolare a chi non ha gli strumenti per comprendere appieno quello che sta succedendo attorno a sè, le ragioni della propria oppressione, tutto ciò che non gli impedisce di essere felice. Teatro è per me un mezzo per abbattere muri, per strappare veli, per urlare la propria indignazione, e celebrare la propria gioia.

Realtà e racconto poetico. Quanto costa oggi raccontare poeticamente la realtà napoletana?

A Napoli, oggi, manca proprio questo, a Napoli manca un poeta che la racconti. Questa è una grave mancanza, è indispensabile per una società avere qualcuno che sappia intercettare le passioni profonde, i desideri, ma anche le ferite e le miserie, per dare loro una lettura che le decodifichi, le smascheri, le renda visibili. Se penso a questo vuoto, quando affronto le mie storie, che sono inevitabilmente legate alla mia terra, mi tremano i polsi, pensando a quanto grande sia questa responsabilità

Il tuo è uno sguardo intimo sul mondo. Cosa brucia nei tuoi testi teatrali?

In alcuni testi che ho messo in scena o che sono diventati canzoni ho raccontato di: un uomo che come mestiere portava pesantissime forme di ghiaccio alle botteghe di mezza Napoli,  durante la seconda guerra mondiale. Un operaio napoletano che per rispettare la dignità della sua professione finisce per ingrossare le fila delle vittime sul lavoro una bambina che il padre non esita ad usare come scudo mentre un killer del sistema lo sta ammazzando. Felice Pignataro, il fondatore del gridas di Scampia un uomo che dice di amare la sua terra permettendo però che venga stuprata inquinata e bruciata. In quello che scrivo c’è la mia città, la mia terra e  ci sono storie di quelle  donne e di quegli uomini che di solito vengono cannibalizzate dai media solo per farne macelleria, come in una sorta di stupro catodico. Con le mie parole, io immagino di prendermene cura, di prenderle in braccio come bambini, bambini innocenti che una società infedele ha abbandonati a se stessi.

Cosa ti spinge a scrivere ? Qual è la forza che ti piega al teatro?

La mia profonda necessità è  fare un teatro vivo che arrivi a tutti coloro che ne prendono parte, che non escluda nessuno, che faccia perdere l’equilibrio, che causi una crisi profonda, un teatro che sia un’esperienza da cui si esce cambiati, cresciuti, un’esperienza che sia in grado di regalare uno sguardo nuovo. Un teatro che non sia mai “intrattenimento”. Io credo che solo comprendendo e accogliendo in profondità le altrui storie, al punto di riviverle “teatralmente”, si riesce ad arrivare ad una piena consapevolezza della propria umanità. Questo è il principio che sta alla base del Delirio Creativo: il laboratorio teatrale scelto da Stefano Benni per i suoi seminari, da me condotto. In realtà si tratta di un rito d’ improvvisazione artistica dove ogni partecipante mette a disposizione il suo talento e sotto la mia guida si improvvisano veri e propri spettacoli, piccoli gioielli unici e irripetibili.

Cosa ha fatto il teatro per te?

Il teatro mi ha reso una persona migliore. Il teatro mi aiuta a vincere la paura, il teatro da senso, spinta, tensione alla mia esistenza; il teatro fa si che il bambino dentro me non smetta mai di giocare; il teatro  mi permette di urlare senza essere preso per pazzo; il teatro mi avvicina ad una forma nuova di spiritualità. Se l’uomo è fatto ad immagine di Dio, ciò che lo rende simile a lui è quando “crea”. Nell’atto creativo, la scintilla divina dentro di noi brilla e ci ricorda che siamo oltre la semplice materia.

Tu per il teatro?

Il teatro ha bisogno di incontrare le persone, soprattutto le persone che non andrebbero mai in un teatro, pagando magari un biglietto molto salato. Il mio teatro si pone questo problema, sia nei testi, sia nel modo di raccontare e sia proprio fisicamente, nel senso che spesso ci rechiamo direttamente a domicilio. Per esempio: durante il carnevale di Scampia, organizzato dal GRIDAS, noi barattiamo la nostra arte ai balconi, in cambio di caffè, acqua, ombra e sorrisi. Per questo pubblico e con questo pubblico danziamo, cantiamo serenate, recitiamo pezzi teatrali, improvvisiamo scene epiche partendo dal menù del pranzo, o drammatizziamo le loro storie. Abbiamo inoltre recitato e improvvisato in altri posti “non convenzionali”: il carcere di Eboli, un lido balneare, chiese sconsacrate, università, una campagna martoriata nella “terra dei fuochi”. La cosa importante è non scendere a compromessi, non scegliere la via facile, io mi pongo il problema che quello che racconto arrivi anche ad un pubblico non “preparato” ma la forma il linguaggio deve essere sempre tale che i contenuti siano “evocati”. Bisogna permettere al pubblico di fare uno sforzo di immaginazione, perchè è là che si annida l’ insidia, la sorpresa, il seme di un piccolo cambiamento, il germe di una possibile rivoluzione.

Chi è il tuo regista preferito?

Massimo Troisi. Troisi ha trovato un personalissimo ed efficace modo “poetico e popolare” di raccontare l’umanità. Napoli era solo un punto di partenza, poi lui si è spinto molto oltre.

Letteratura, amore, teatro. Tra questi valori chi metti al primo posto? Perché?

L’amore. L’amore viene prima di tutto. L’amore è la mamma e il tessuto connettivo di  tutte le forme d’arte. Per me non si può fare arte senza amare, senza provare la “pietas”, per ciò che ti circonda, per quello che vuoi raccontare. Una profonda comprensione delle persone e della meravigliosa fragilità umana è alla base per raccontare storie che racchiudano sprazzi di universalità.

In bocca al lupo Raffaele Bruno.