Roma, domenica 4 marzo 2012 – “Non ci son nemici peggiori di quelli che un tempo erano amici” declama in scena saltellando Agamennone, alias Cristiano Maria, che impersona il poeta servo di Filerote con il ruolo di voce narrante. La sala delimitata da due bracieri d’incenso vien pervasa da musica tetra mentre quattro fanciulle dalla veste bianca ma con sguardo cupo si contrappongono l’un l’altra ai lati del proscenio in una danza che mima colpi figurati in azioni di guerra. Sembra stia per accadere l’inverosimile quando, tra le allietanti note di una cetra, la scena d’incanto si tramuta in commedia. Il sipario si apre su un tipico triclinio d’ambientazione greco-romana delimitato da due colonne marmoree a sostegno di un fondale affrescato a rosso pompeiano su cui campeggiano tre divanetti con cuscini color rosso cinabro. La vicenda, ambientata a Pompei tra il 50 ed il 79 d.C., narra della disputa di due facoltosi liberti, dapprima amici e soci in affari e poi nemici per questioni di cuore. Agamennone, alias Cristiano Maria, in calzamaglia nera con un buffo cappellino a campanelli e truccato in volto a mo’ di maschera, urla con ghigno piangente da folletto: “Quella non è una donna, è una strega…Ha rotto un’amicizia dura come il marmo”. Il mutamento nel tono di voce, da tono stentoreo e greve a vocina stridula richiama scherzosamente ad hoc l’attenzione del pubblico.

 Squilli di trombe sanciscono l’inizio di gag comiche in cui vengono posti in scena improbabili dialoghi tra l’imperatore Nerone, alias Salvatore Parascandola ed il liberto arricchito Filerote, alias Maurizio Sinibaldi. “Cento indizi non fanno una prova” dice Filerote a Nerone, mentre questi in tunica bianca, solenne toga rossa e corona d’alloro replica buffamente in dialetto napoletano: “Ma che vulite da me?”. Orfellio, alias Giannunzio Affinita, a Libanide, ridendo con sarcasmo e con tono di voce calante a schernirla “Sapete che differenza c’è tra il cuore ed una prostituta? Non c’è! Battono tutti e due”. Allora la matrona Vesonia, alias Mariagrazia Casagrande, alludendo ad Orfellio afferma con aria schifata: “E’ capace di raccattare coi denti le monete arinda ‘a merda!”. E quando Agamennone alias Cristiano Maria, viene invitato da Orfellio a spalmare su di lui un unguento curativo, prende il via una scena ridicola in cui il fare sinuoso ed il massaggio sul fondo schiena del liberto ad opera del poeta, piegando ed alzando le gambe ad intervalli regolari quasi a mimare un amplesso, fanno letteralmente esplodere il pubblico in fragorose risate.

 Filerote, alias Maurizio Sinibaldi, non potendo liberarsi dello ius sepolcrali concesso all’ex amico Orfellio ricorre con l’aiuto di Libanide, fattucchiera oltre che lupanara, ad una ‘Defixio’ volta ad impedire all’anima di quest’ultimo di passare nell’aldilà, pertanto fa incidere su una lastra di ardesia la formula del maleficio: “…Chi di noi mente non lo accolgano né i Penati né gli inferi”. Un tuono irrompe in sala tra lo sgomento dei presenti. E quando l’antica città vien sommersa da lava, fiamme e cenere…il maleficio di Filerote che strada prenderà? Appropriata la scenografia di Sara Chirico che ci trasporta nelle opulente atmosfere della domus pompeiana dove, tra lucerne splendenti impregnate di oli profumati, passato e presente si fondono in un immanente stato di competizione per il riscatto sociale. La ricostruzione di affreschi di personaggi mitologici in pose d’amore si unisce in farsa ad un divertente ed indovinato fondale su cui campeggiano le statue di gesso raffiguranti i due liberti e la matrona Vesonia passati a miglior vita.

 Belle le coreografie di Manuela Verna. Il corpo di ballo effettua danze suggestive su note antiche mentre entra in scena Libanide, alias Erika Kamese, che interpreta brani struggenti e malinconici. La Kamese, in lunga veste bianca fino ai piedi forse a simboleggiare la purezza dell’amore del suo personaggio, al di là della riprovevole professione, oltre alla prosa si cimenta in ‘recitativi’ basati sul canto lirico. In uno di questi brani, arpeggi di chitarra uniti al vibrare degli archi accompagnano una danza in stile giapponese in cui ballerine in maschera di color bianco volteggiano leggiadre e sognanti. S’avvolgono in vita l’un l’altra quasi a realizzare la nascita di un volatile ed il loro slancio di braccia e corpi verso il proscenio provoca applausi a scena aperta. In altro brano il corpo di ballo in tute rosa e con volteggiare veloce di avambracci a tessuto pendente, realizza un’atmosfera cupa e demoniaca in una danza che simboleggia la morte.

 Il regista Paolo Mellucci riesce bene nel coordinamento artistico dell’opera e nella trasformazione del testo in suono, immagine ed emozioni. La colonna sonora dello spettacolo fornisce enfasi allo stato d’animo dei personaggi ed alla situazione nel dettaglio. Si raccomanda però maggiore attenzione all’acustica del teatro, per facilitare la comprensione delle parole all’interno della pièce teatrale. E se per giungere alla consapevolezza occorre passare attraverso la morte, al sopra giungere di essa non c’è ricchezza che tenga. Come diceva Totò la morte è una livella che rende tutti uguali dinanzi ad essa. Dalla prolifica penna dello scrittore Gennaro Francione mille spunti di riflessione per fare del teatro una metafora dei problemi del presente. Un occhio al passato per deridere l’attualità, macerata dagli stessi immutati dilemmi. L’amore si contrappone all’odio, la giustizia alla corruzione, il sesso alla frustrazione, la verità alla menzogna. Il mitico dualismo tra Eros e Thanatos in farsa. Lo scontro tra due fortissime pulsioni che oltrepassano la tragedia per condurre al riso. In questa parodia dell’antica Pompei non è l’amore né l’odio a superare la corporeità mortale, ma la beffa. L’odio e la corruzione, in quanto figli della frustrazione, diventan ridicoli agli occhi del mondo. Una commedia esilarante che fa riflettere, oggi come ieri, sulle meschinità del vivere civile.

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