Lunedì 6 luglio 2015 – Tsipras vince il primo round con Bruxelles e con la Merkel e con le dimissioni di Varoufakis dà il primo vero scacco all’Unione Europea. Dopo il lungo e interminabile confronto sulla rinegoziazione del debito e sulle misure da adottare perché sia credibile il percorso di “redenzione” del bilancio nazionale greco, finito con uno stallo incomprensibile, nel referendum passa la linea Tsipras. Con un quorum giunto al 65% il No ha ottenuto il 61% circa dei consensi. Questo vuol dire che il popolo greco ha votato senza alcun timore, nonostante le tante e contrastanti voci arrivate dalle Cancellerie del Nord Europa che sottolineavano come la Grecia sarebbe stata fuori dall’Eurozona, e respinta nel caos della Dracma, se non avesse prevalso il Sì. Stremata da anni di ristrettezze economiche, di tagli, di austerità che ha condotto il Paese a sopportare la più alta percentuale di disoccupazione nazionale tra i giovani e anche tra i meno giovani, oggi la Grecia non ne ha più. Al di là delle reali colpe dei governi ellenici pre crisi, corrotti e inattendibili, che insieme ai fondi internazionali, hanno falsificato i bilanci per entrare in Europa. E al di là delle mancate rigorosissime analisi che di quei bilanci si sarebbe dovuto fare prima di accettare le richieste elleniche di ingresso. Dunque al netto di tutto questo la Ue non può chiedere di sopportare ad un popolo che ormai fa parte di diritto dell’Eurozona di pagare un prezzo troppo alto. È dovere dell’Europa trovare un punto di incontro quanto più possibile vicino alle giuste aspettative di tutti gli altri paesi membri, ma senza impoverire e stremare il popolo che comunque le sue riforme le sta facendo. Anche perché, nonostante Tsipras e Varoufakis, che possono anche aver dato sensazioni di scarsa attendibilità, ma che comunque vanno rispettati perché espressione di un mandato elettorale, le parti non erano poi così distanti. Questo almeno dicono gli osservatori. C’erano da limare dettagli e da concedere forse qualcosa ancora da una parte come dall’altra. Insomma in politica il compromesso va trovato. C’è chi parla di uno 0,3% e chi parla di 60 milioni di euro il gap da superare tra le richieste della Trojka e quelle greche. Ossia un niente rispetto al bilancio da risananare.

Come non sia stato raggiunto un accordo tra le parti sulla base di questo in fondo breve scarto è cosa che non sembra chiara a chi venisse da un altro continente e dovesse valutare l’operato della Comunità Europea. In Italia ci sono paletti ben precisi. Se il governo Renzi non raggiunge gli obiettivi promessi per il risanamento dei conti pubblici, scattano alcune clausole di salvaguardia (aumento dell’iva e altro) che metterebbero ancora in maggiore ristrettezza l’economia italiana. Se Renzi vuole governare, viste ormai la stanchezza del mercato interno e l’inoccupazione che non sembra scendere, deve per forza provare a fare bene e evitare che scattino le clausole, e sicuramente un giudizio ancora più serrato e negativo sul suo operato. Con il rischio di andare alle elezioni anticipate e perderle, visto ormai il gradimento in caduta libera, finendo rottamato prima ancora di iniziare la vera rottamazione. Insomma per procedere sulla via del risanamento e di un cammino virtuoso ci sono differenti strade e differenti politiche. L’importante è arrivare ai risultati richiesti da Bruxelles. Come ci si arriva non deve essere affare della Governance europea, ma di quella italiana. Se poi non si arriva a risultato scattano le clausole di salvaguardia concordate, ma in quel caso sarebbe una sconfitta per l’esecutivo in carica. Qualcosa di simile poteva essere pensato anche per il Governo Tsipras. Se i burocrati e le cancellerie non credono all’Esecutivo ellenico, possono architettare qualcosa di simile, chiedendo che garanzie precise (leggi clausole) scattino al mancato raggiungimento degli obiettivi. Sarebbe stato un modo per ridare fiato all’economia greca, dare tempo e fiducia al Primo Ministro ellenico e comunque conservare la possibilità di controlli seri e rigorosi sul suo operato. Il muro contro muro non giova a nessuno e se la Merkel aveva scommesso sul Sì e su una rivolta della popolazione, impaurita dalla possibile uscita dall’Euro, è rimasta scottata e deve registrare una secca sconfitta.

La Germania e la Merkel ci hanno messo la faccia più di tutti e hanno perso. Adesso devono rispettare il mandato elettorale, chiaramente espresso dal referendum, e cercare di trovare un accordo al ribasso o per lo meno uguale a quello presentato e voluto da Tsipras prima che il tavolo saltasse. Agire altrimenti vorrebbe dire non tenere conto della volontà popolare e ammettere che Bruxelles, guidata dall’egemonia tedesca, è pronta a spingere fuori dalla moneta unica tutti coloro che osano comunque mettere in discussione i principi rigoristi. Un simile sbocco sarebbe quanto di più lontano possibile dall’idea di un’Europa dei Popoli. Al contrario, l’Unione Europea deve dimostrare di essere fondata su principi di solidarietà, di compartecipazione e di accoglienza. Altrimenti il rischio è che una volta uscita la Grecia, la possano seguire paesi come l’Italia, la Spagna, il Portogallo. Potrebbero indire un referendum, rinegoziare il debito e le riforme, oppure uscire dall’Euro, restringendo sempre di più i confini della divisa unita. Ma un mercato ristretto farebbe comodo ai paesi forti? Tante e diverse monete molto svalutate che possono fare una grande concorrenza, esportando più e meglio dei paesi del Nord Europa sarebbe sano per le loro economie? La partita è complessa e difficile e la Merkel per il momento l’ha giocata male. A meno che l’obiettivo non sia sfasciare l’Europa!