In apertura il pubblico ha la sensazione di trovarsi in un locale a luci rosse: luci soffuse e la protagonista che balla in sottoveste rossa e tacchi a spillo. In realtà ci troviamo in una fredda cella di prigione
di Luisa Deiola
redazione@lacittametropolitana.it
Dal 10 al 14 febbraio è andato in scena al Piccolo Teatro Campo d’Arte, Lap-shame scritto e diretto da Vieri Franchini Stappo. Anita Zagaria, amata dal grande pubblico per aver vestito per anni il ruolo di Nilde in Un medio in famiglia, nel lavoro del regista fiorentino, interpreta Rosa, una donna che passerà ad indagare il suo corpo dagli imbarazzi dell’infanzia, attraverso i turbamenti sessuali, alla pensione anticipata a causa della sua età, fino alla pazzia. All’inizio dello spettacolo il pubblico ha la sensazione di trovarsi in un locale a luci rosse: musica alta, lui soffuse, e lei, la protagonista, che balla, mostra il suo corpo muovendosi in maniera sensuale attorno ad un freddo palo metallico. Addosso ha una sottoveste rossa e dei tacchi a spillo. All’improvviso si ferma, sente dei passi, il rumore di grossi chiavi di ferro. La tenue luce rossa che illuminava il suo corpo si spegne. Siamo in una cella ed il palo, da strumento usato per ballare la lap-dance, diventa uno dei tanti pali che compongono la sua cella.
Rosa si copre, toglie le eleganti scarpe che indossava, il suo momento di istintività è finito. L’estasi si dissolve per fare largo all’ inquietudine di una bellissima donna repressa che racconta la sua vita ad un interlocutore invisibile. La sua è una vita segnata dalla convivenza con la vergogna e del senso di colpa che i genitori, le suore, i compagni di classe le hanno tatuato addosso nel corso degli anni. Rosa vive a metà tutti gli eventi della sua vita, incapace di essere se stessa, di amare e provare piacere sessuale da adolescente e poi da moglie. Perché il diabolico sentimento del disagio si manifesta in primo luogo sulla percezione di se: la sua fisicità la repelle, ha il seno troppo grande, le braccia troppo piccole, non ha il diritto di mostrarle, la società non le vuole vedere. L’assoluto autocontrollo che si infligge per la paura di scoprirsi e essere presa in giro la conduce in uno stato catatonico: si rifiuta di sentire la voce delle persone che la circondano e la sua di voce, quella della pena e del disprezzo di se. Zittisce in questo modo anche il chiasso delle pubblicità televisive che esaltano la bellezza e l’erotismo del corpo femminile ed invitano le donne ad occuparsi solo della cura estetica, perché quella è l’unica cosa che conta, “perché se non lo fai, beh allora vergognati” urla, indignata, la donna. La scelta di Rosa è netta: scaccerà la sua timidezza in modo paradossale ed estremo, facendo dell’esibizione del suo corpo la sua unica ragione di vita, in un ballo dionisiaco e liberatorio che la porterà alla pazzia. Come un animale in gabbia che diventa aggressivo, così una donna schiacciata da ciò che la circonda implode nella sua frustrazione ed ha come unica via di scampo l’estrema esaltazione del suo io apparente.